Verifica della capacità creditizia ai sensi della Legge federale sul credito al consumo (LCC)
Il cliente era assistito dai servizi sociali del suo comune di domicilio. A suo avviso, secondo la Legge federale sul credito al consumo, prima di concedere un credito al consumo a un cliente, la banca doveva verificarne la capacità creditizia, per assicurarsi che il cliente fosse in grado di rimborsare il credito utilizzando la quota a libera disposizione (non pignorabile) del suo reddito entro 36 mesi, anche se era stata concordata una durata del contratto più lunga. Questa norma mira ad evitare il sovraindebitamento del beneficiario del credito. Secondo il cliente, per verificare la capacità creditizia si deve allestire un budget e la quota del reddito a libera disposizione deve essere accertata in base alla Direttiva per il calcolo del minimo esistenziale vigente nel suo cantone di domicilio. Sempre a suo dire, se le indicazioni fornite dal richiedente sono incomplete o poco chiare, la banca vi deve rimediare, chiedendo informazioni supplementari.
Il cliente riteneva che nel caso in esame la banca aveva commesso dei gravi errori nell’allestire il budget: se da una parte aveva preso in considerazione un reddito troppo elevato, dall’altra aveva ignorato o sottovalutato alcune voci di spesa fondamentali. Le differenze concernevano in particolare l’ammontare del reddito ipotizzato e le spese di trasferta professionali. Nel budget non aveva inoltre considerato le spese aggiuntive per i pasti fuori casa. Per finire, il calcolo per determinare le imposte da pagare non era verificabile.
Basandosi su una decisione giudiziaria, il cliente riteneva inoltre che per determinare se il credito poteva teoricamente essere rimborsato in 36 mesi attingendo alla quota del suo reddito a libera disposizione, come previsto dalla legge, oltre a tener conto dell’importo del capitale si dovevano considerare tutti gli interessi e tutte le spese insorgenti sull’arco dell’intera durata contrattuale pattuita, ossia 60 mesi. In tal modo si sarebbe ottenuto un importo più elevato rispetto alla somma degli interessi e delle spese insorgenti sull’arco della durata contrattuale teorica di 36 mesi.
La quota di reddito a libera disposizione, determinata dal cliente o dai suoi servizi sociali sulla base di un budget corretto, non sarebbe stata sufficiente per rimborsare il credito in 36 mesi, interessi e spese compresi, indipendentemente dal metodo di calcolo utilizzato. Di regola, se la banca che concede il credito commette gravi errori nel verificare la capacità creditizia, essa perde il diritto al rimborso del capitale e al pagamento degli interessi. Il beneficiario del credito ha allora il diritto di pretendere la restituzione dei rimborsi già effettuati e non è tenuto a saldare il debito residuo. Errori lievi da parte della banca comportano solitamente solo la perdita del diritto agli interessi e alle commissioni. Il cliente reputava gravi gli errori commessi nel caso in esame. Era disposto a rinunciare al rimborso degli importi già versati a condizione che la banca lo svincolasse dall’obbligo di rimborsare l’importo residuo del credito concessogli e che ritirasse la procedura esecutiva avviata nei suoi confronti. Avendo la banca rifiutato un tale compromesso, il cliente si è rivolto all’Ombudsman con il sostegno dei servizi sociali per avviare una procedura di mediazione.
La banca ha spiegato all’Ombudsman che le divergenze con il cliente vertevano su questioni di fondo che non potevano essere chiarite nell’ambito della procedura di mediazione. Essa non era inoltre disposta ad andare incontro al cliente quale gesto di cortesia. Ha fatto valere che la modalità di calcolo dell’importo del credito da restituire sull’arco di 36 mesi era una questione giuridica mai trattata dal Tribunale federale. Inoltre, la decisione citata dal cliente emanava da un tribunale cantonale di ultima istanza. La banca non condivideva gli argomenti che vi erano sviluppati e riteneva determinanti unicamente gli interessi e le spese effettivamente insorti sull’arco di 36 mesi. Di conseguenza, per calcolare il credito determinante, si sarebbe dovuto ridurre in maniera proporzionale gli interessi e le spese insorgenti fino alla decorrenza di 60 mesi. Sempre a suo dire, il reddito considerato era corretto e le spese forfettarie inserite nel budget per le trasferte professionali erano sufficienti. D’altro canto essa non era disposta a considerare le spese per i pasti fuori casa. Per quanto concerne l’importo per le imposte, la banca ha sottolineato che questo era stato calcolato da una società esterna e che poteva pertanto essere ritenuto corretto. Ha infine osservato che le cifre oggetto delle singole poste del budget erano state fornite dal cliente e da lui riconosciute apponendo la propria firma.
La procedura di conciliazione dell’Ombudsman arriva al suo limite quando il contendere verte su una questione giuridica non ancora chiarita dal Tribunale federale e riguardo alla quale le parti mantengono le rispettive posizioni. Nel caso in esame, questa situazione si è verificata in relazione alla questione del calcolo dell’importo del credito teoricamente rimborsabile entro 36 mesi. L’Ombudsman non ha quindi potuto proporre nessuna soluzione. A suo avviso, le altre domande del cliente concernenti le diverse voci del budget avrebbero comunque potuto essere trattate nell’ambito della procedura di mediazione. Tuttavia, a causa della posizione categorica della banca, non è stato possibile mediare nemmeno su questi punti. L’Ombudsman ha quindi dovuto limitarsi ad apprezzare gli argomenti delle parti. Nel complesso, quelli della banca gli sono parsi meno convincenti di quelli del cliente. Pertanto, a suo avviso, sarebbe stato appropriato un atto di cortesia da parte dell’istituto di credito. A malincuore, l’Ombudsman ha dovuto lasciare al cliente l’incombenza di far valere le proprie argomentazioni nell’ambito della procedura d’esecuzione o di rigetto dell’opposizione, sfocianti in una decisione vincolante. A titolo completivo va fatta un’ultima osservazione. Durante la procedura di mediazione è stato reso noto che un’importante organizzazione benevola aveva interpellato la FINMA ritenendo che determinate banche commettevano sistematicamente degli errori nel verificare la capacità creditizia ai sensi della Legge sul credito al consumo. In particolare veniva regolarmente sopravvalutata la quota a libera disposizione del richiedente di credito, con conseguente sovraindebitamento.