Vendita tardiva di quote di fondi del pilastro 3a
Come è consuetudine per i fondi pensione istituiti dalle banche, la banca coinvolta in questo caso era l’amministratrice della propria fondazione di previdenza, con la quale il cliente aveva concluso una convenzione di previdenza. Il cliente si è rifiutato di dare seguito alla richiesta della banca con la quale essa gli ingiungeva, diversi mesi dopo l’invio dell’ordine di vendita, di trasmetterle un certificato di domicilio attuale, senza il quale non avrebbe eseguito le istruzioni conferite. Dall’apertura del suo conto pensione nel 1993, il cliente non aveva mai cambiato il suo luogo di domicilio e la banca aveva sempre inviato la sua corrispondenza allo stesso indirizzo. La richiesta della banca gli sembrava eccessivamente formalista, soprattutto perché altre casse pensioni non avevano richiesto questo documento per porre fine al rapporto pensionistico. Facendo riferimento al regolamento della cassa pensioni, la banca ha rifiutato di rinunciare al certificato di domicilio.
Nel gennaio 2020, il cliente ha compiuto 65 anni. Conformemente al regolamento di previdenza, che stabilisce che il rapporto di previdenza viene sciolto al più tardi quando il cliente raggiunge l’età di pensionamento AVS, a condizione che non confermi di continuare a esercitare un’attività lucrativa, la banca ha per finire sciolto di propria iniziativa il rapporto di previdenza, senza attendere il certificato di domicilio.
Tuttavia, la chiusura del rapporto come pure la vendita delle quote del fondo sono avvenuti solo il 17 marzo 2020. La situazione in quella data era particolarmente sfavorevole, con il risultato che il cliente ha subito una notevole perdita di valore rispetto al ricavo che avrebbe ricevuto se la vendita fosse avvenuta all’inizio di gennaio 2020, come da lui richiesto.
In risposta al reclamo del cliente, la banca ha sostenuto che lui non le aveva fornito un certificato di domicilio attuale nonostante diversi solleciti, e che quello fornito nel 1993 non era sufficiente. La banca aveva inviato la richiesta al cliente prima della crisi del coronavirus. La banca ha anche spiegato che la cassa pensione si riserva il diritto di vendere le quote del fondo al prezzo che essa stessa stabilisce, finché gli averi previdenziali sono investiti in gruppi d’investimento. Il cliente non era d’accordo con quest’argomentazione e ha sottoposto il suo caso all’Ombudsman.
Nella sua richiesta all’Ombudsman, il cliente ha spiegato che non capiva perché avrebbe dovuto presentare un certificato di domicilio e, data la sua situazione personale, sobbarcarsi il costo della relativa tassa. Non c’era alcun dubbio ragionevole sul suo domicilio. Inoltre, un tale requisito potrebbe avere senso solo come condizione preliminare per il rimborso degli averi, in quanto potrebbe garantire che le imposte alla fonte vengano dedotte prima del rimborso degli averi nel caso in cui il cliente sia domiciliato all’estero. La mancanza di un certificato di domicilio attuale non potrebbe quindi essere usata come motivo per non vendere le quote dei fondi al momento richiesto. Infine, il cliente ha fatto notare che il regolamento della cassa pensioni stabilisce che il rapporto di previdenza deve essere terminato quando il cliente raggiunge l’età AVS. Tuttavia, egli aveva compiuto 65 anni a metà gennaio 2020, solo pochi giorni dopo la data di vendita che aveva indicato. Se le quote dei fondi fossero state vendute in quel momento, non avrebbe subito alcuna perdita. Secondo lui, aspettando fino a metà marzo 2020 per vendere le quote dei fondi, la banca ha violato anche il regolamento del fondo pensione.
L’Ombudsman ha contattato la banca e le ha chiesto di riconsiderare il caso alla luce degli argomenti sollevati dal cliente. Ha anche sottolineato che il diritto della cassa pensioni di richiedere un certificato attuale per determinare il luogo di domicilio era espressamente definito come un “requisito opzionale”. Secondo l’Ombudsman, nel caso specifico, la situazione personale descritta dal cliente non giustificava la necessità di un tale documento. Dopo un ulteriore esame del caso, la banca ha infine deciso di risarcire completamente il cliente per il danno rivendicato. Tuttavia, la banca ha insistito per ottenere un certificato di domicilio attuale prima di fare il rimborso degli averi. Il cliente ha accettato questa condizione, citando il famoso detto che “solo gli stupidi non cambiano idea”.