Richiesta di rimborso alla banca dopo una frode sugli investimenti
Il cliente faceva valere essere stato vittima di una frode. Egli affermava che, nel corso del 2022, adducendo falsi fatti, dei truffatori lo avevano indotto a effettuare con la carta di credito, emessa dalla banca, delle transazioni per un importo complessivo di 170’000 franchi, prim’ancora che lui si rendesse conto di essere vittima di una truffa. Il cliente sosteneva che la criptoborsa, presso la quale aveva utilizzato la sua carta di credito, non aveva fornito i servizi promessi. Secondo lui, in un caso del genere, si applicherebbero termini di chargeback più lunghi, fino a 540 giorni, durante i quali gli importi addebitati potrebbero essere recuperati per il motivo che il concessionario non ha fornito correttamente i servizi promessi. Il codice di chargeback pertinente sarebbe denominato «Services Not as Described». Il cliente accusava la banca di non aver esaminato questo aspetto e di aver ritenuto nella su risposta, ch’egli contestava aver autorizzato le transazioni. Ciò sarebbe tuttavia indiscusso.
Il cliente faceva valere che la nota criptoborsa alla quale si era rivolto affermava rispettare le disposizioni per la lotta contro il riciclaggio di denaro e di sottoporre le transazioni affidatele a una procedura di verifica (due diligence). Ciò non sarebbe però stato fatto. Il cliente considerava inoltre che, per la sua attività a favore della clientela svizzera, la criptoborsa avrebbe necessitato di una licenza della FINMA, cosa di cui però essa non disponeva.
Dalla documentazione relativa alla denuncia penale sporta dal cliente risultava che, con le transazioni che aveva effettuato con la sua carta di credito presso la criptoborsa, egli aveva acquistato delle criptovalute e che quest’ultime sono poi state trasferite sui wallet dei truffatori. È inoltre emerso che i fatti si sono svolti tra dicembre 2021 e marzo 2022 e non fino alla fine del 2022, come indicato dal cliente.
L’Ombudsman poteva capire l’irritazione del cliente per la truffa subita e per l’importanza del danno che gli era stato causato. In quanto mediatore neutro, il suo compito è tuttavia quello di verificare se nel caso specifico sussistevano indizi sufficienti di un comportamento scorretto della banca che aveva emesso la carta di credito e se, sulla base di tali indizi, il cliente aveva subito un danno.
In Svizzera, l’emittente di una carta di credito non ha alcun obbligo di verificare i commercianti a favore dei quali vengono effettuate transazioni con la carta. Nell’ambito della rete di carte di credito, spetta al cosiddetto acquirer, ovvero alla banca che conclude con i commercianti i contratti necessari all’accettazione delle carte come mezzo di pagamento, verificarli. Per il resto, è in primo luogo compito del titolare della carta verificare un commerciante e i servizi che offre prima di effettuare un pagamento con la carta. Quando una transazione viene ordinata dal titolare della carta, l’emittente della stessa deve, in linea di principio, eseguirla. Di regola, l’emittente non è a conoscenza della transazione che viene pagata con la carta e non deve metterla in discussione. Sapere se la criptoborsa avrebbe necessitato di un’autorizzazione della FINMA e conoscere quali conseguenze ciò avrebbe potuto avere nell’ambito del diritto civile erano invece questioni senza pertinenza per il caso in esame. I fatti determinanti si erano infatti verificati dopo l’entrata in vigore della LSerFi, ma prima che – alla fine del 2022 – scadessero i relativi termini transitori.
La criptoborsa, presso la quale il cliente aveva acquistato le criptovalute, disponeva nel Paese in cui aveva la sua sede di una licenza quale «virtual asset provider» ed era sottoposta alla vigilanza del regolatore locale. Quali delle prestazioni apparentemente offerte a scopo di prevenzione del riciclaggio di denaro e di verifica essa avrebbe violato non risultava invece dall’incarto presentato dal cliente.
Per contro, dai documenti messi a disposizione dell’Ombudsman risultava chiaramente che, al momento in cui il cliente aveva chiesto all’emittente della sua carta di credito di avviare una procedura di rimborso, egli aveva già trasferito a terzi le criptovalute per le quali aveva dato le sue istruzioni di acquisto e che aveva pagato regolarmente con la sua carta di credito. Date queste circostanze, una procedura di chargeback, come quella richiesta dal cliente alla banca, sarebbe stata infruttuosa anche rispettando i termini, poiché la criptoborsa sosteneva di aver fornito i servizi che il cliente aveva pagato con la sua carta di credito conformemente alla sua richiesta.
Per questi motivi, l’Ombudsman non ha potuto individuare nell’incarto del cliente argomenti convincenti che gli avrebbero consentito di avviare, nei confronti della banca emittente della carta di credito, una procedura di mediazione con reali prospettive di successo. Egli ha quindi chiuso il caso trasmettendo una presa di posizione scritta al cliente.